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Guido Pagliarino

Il mostro a tre braccia  e I satanassi di Torino

due racconti lunghi storico-polizieschi  ambientati a fine anni '50 e primi '60 del XX secolo

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ISBN libro cartaceo distribuzione Tektime 9788873042938 Seconda edizione cartacea, 2017, copyright dell'autore

 

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Copertina della Prima edizione, cartacea ISBN 9788863071955 - Questa prima edizione, 0111 Edizioni,  è FUORI CATALOGO dal 1° gennaio 2012 e i diritti sono tornati all'autore



















































                              

Avevo scritto questi due racconti lunghi, o romanzi brevi, nel 1994 e nel 1995, di poco anteriormente al sorgere della moda del giallo e poliziesco italiani, lavori basati sulle figure di Vittorio D’Aiazzo, commissario e poi vice questore, e di Ranieri Velli, suo aiutante e amico, personaggi che, l'uno o entrambi, ritornano in altri miei romanzi e racconti (ultimo, il prequel "L'ira dei vilipesi" con un D'Aiazzo ancor giovanissimo durante le Quattro Giornate di Napoli del 1943).
In questi lavori ho prestato in primo luogo attenzione alle psicologie e agli ambienti, questi tutti del passato più o meno recente con qualche nostalgia per quella Torino della mia adolescenza e giovinezza che più non esiste. Ne erano e sono destinatari i lettori di narrativa in generale che, pur non disdegnando opere che trattino di delitti, non abbiano gusti alla paprika; non ci si aspetti dunque racconti alla Raymond Chandler o James Ellroy o, restando in Europa, alla Manuel Vazquez Montalban; ma neppure, d'altro canto, si attendano indagini arzigogolate, ben poco verosimili, come quelle ideate da Agatha Christie. L’azione del paio di racconti inclusi in questo libro si svolge in un periodo ancora pre-cibernetico, tra la fine degli anni ’50 e l’inizio dei ’60 dello scorso secolo, in una Torino dove, nell’area di Porta Palazzo e dintorni, centrale al primo lavoro, non abitavano ancora, come oggi, quasi soltanto extracomunitari, ma anziani piemontesi in pensione, originari della zona, e giovani famiglie dell’immigrazione meridionale; una città in cui arterie principali quali corso Vittorio Emanuele II e corso Regina Margherita vedevano, quasi, più mezzi di trasporto pubblici che privati. Fra questi ultimi, nelle vie e nei contro viali giravano molte biciclette, alcune a motore, mentre già si vedevano le prime auto 600 e 500, normalmente comperate a rate, con chili di cambiali, da qualche impiegato avanti nella carriera o occupato alla regina FIAT, signora ben più di oggi di Torino e cintura. Qua e là, poi, rombavano le automobili di maggior prezzo, acquistate da esponenti dell’alta e media borghesia, come la FIAT 1400 e l’ALFA ROMEO 1900 – questa usata pure dalla Polizia: la cosiddetta pantera – o come la fantasmagorica, per giovani figli di ricchi, LANCIA Aurelia Sport 1200, quella del film “Il sorpasso”, auto diretta concorrente dell’ALFA Giulietta spider 1300. Con le automobili e le biciclette circolavano vespe e lambrette assieme a qualche motocicletta di piccola cilindrata. Era quella un’epoca in cui non c’erano ancora il personal computer e il telefonino, tutte le famiglie avevano la radio ma pochissime la televisione, in bianco e nero, canale RAI unico: però senza pubblicità, a parte il simpatico e oggidì quasi leggendario “Carosello”. Una Torino, insomma, in cui un investigatore poteva ancora operare quasi come i suoi colleghi dei gialli e polizieschi classici europei anni ’20-50.
Nel primo racconto, "D'Aiazzo e il mostro a tre braccia", viene picchiato a morte da ignoti un antiquario e restauratore torinese, Tarcisio Benvenuto, uomo dal fisico deforme che, alla nascita, era stato abbandonato dall’ignota madre ed esposto alla carità delle suore d’un istituto religioso torinese. Dal nulla, lavorando senza posa era divenuto proprietario d’un negozio all’ingrosso e al dettaglio in zona Porta Palazzo. Le suore sue educatrici lo ricordano come persona di bontà quasi angelica e così pure è per altri come la giovanissima sua magazziniera Mariangela che, anzi, parrebbe esserne stata innamorata nonostante l’aspetto mostruoso di lui. Proprio l'incontrario affermano Giulia, avvenente e disinibita sua ex dipendente, adesso prostituta, e un altro dei suoi magazzinieri, Alfonso, e così pure è per alcuni piccoli commercianti clienti del Benvenuto: secondo tutti loro, egli era stato un individuo furioso e vendicativo. Il commissario, dopo aver cercato e sottoposto a interrogatorio più d’un sospettato - siamo solo, insolitamente, a poco più dei due terzi del racconto - scopre l’omicida; il resto della narrazione è dedicato al perché e al come, che il poliziotto espone al suo aiutante e, con lui, al lettore. Viceversa, nel secondo racconto, "D'Aiazzo e i satanassi", le indagini, relative a un’uccisione e a una violenza carnale proseguono fin quasi al termine: Steso a terra sul proprio sangue è ritrovato per strada, da una camionetta della Polizia, il cadavere d’un attempato piccolo industriale, il commendator Paolo Verdi, il cui giovane figlio Carlo, dottore in psicologia, è in prigione in attesa di giudizio, accusato di violenza carnale a Giuseppina Corsati, dattilografa del padre poco più che adolescente; ma egli dichiara al commissario D’Aiazzo d’essere privo di colpa. In carcere è fatto oggetto di brutalizzazioni da parte di altri detenuti, forse a causa del distorto senso di “giustizia” per il quale i violentatori vengono vessati da compagni di detenzione, o forse per mandato esterno di qualcuno affinché Carlo s’intimorisca e si lasci condannare senza difendersi. Di certo la deflorazione di Giuseppina c’è stata, ne presenta i segni, però non potrebbe, forse, la famiglia di lei aver architettato la violenza per averne un risarcimento finanziario? Sicuro è che gli uomini Corsati non sono figure specchiate, anzi sono i bulli del proprio quartiere e in particolare il padre, già sottufficiale delle Brigate Nere a fianco dei nazisti durante il secondo conflitto mondiale, è un bruto assoluto: che sia stato proprio lui a violentare Giuseppina, lei consenziente? O forse uno dei suoi figli maschi? Carlo chiede al commissario d’accertarlo. Intervengono nella storia il poco intelligente Carlone, che aveva avuto in passato nascosti legami con papà Verdi, e un filosofo libero docente all’Università di Torino ed ex ufficiale nella Repubblica di Salò, presso il cui fratello, che ben diversamente era stato membro del Comitato di Liberazione Nazionale, lavora quale cameriera Luciana Corsati, madre di Giuseppina. Dal profondo della vicenda affiorano anche parlamentari tutt’altro che adamantini e, a un certo punto, ne emana una sulfurea esalazione infernale che il commissario ventilerà riuscendo, o quasi, a fare giustizia.
Guido Pagliarino

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Recensione della scrittrice Elisabetta Modena alla prima edizione, 0111 Edizioni, di quest'opera

Il libro presenta due racconti gialli che, come racconta lo stesso autore in una nota iniziale, aveva scritto durante i primi anni '90, e che poi, autostampati, aveva fatto circolare tra conoscenti e amici. Poi il tutto era rimasto lì. Ed è un fatto in cui mi sono identificata [...]. Venendo ai racconti, sono entrambi ambientati a Torino, intorno ai primi anni Sessanta (il 1959 e il 1961), nell'epoca pre-computer come dice lo scrittore. Il primo, "Il mostro a tre braccia", narra del pestaggio che poi si è tramutato in omicidio colposo di un commerciante con una deformazione: ha tre braccia e un pezzo di cervello in più perché è nato dall'unione di due gemelli siamesi, spiega al commissario D'Aiazzo la suora che l'ha cresciuto in orfanatrofio, un'istituzione che adesso è semi-sparita mentre una volta (come si desume dal racconto, ed è molto interessante) esisteva: si poteva trattare anche di reparti, presso gli ospedali cattolici, che accoglievano i bambini nati deformi. Mentre leggevo pensavo che oggi, tramite l'aborto, è facile sopprimere bambini con gravi deformità. Ma allora ne nascevano ancora. Ed in effetti il racconto affronta un tema delicato, di cui non si parla molto: quello dell'handicap. Questo uomo deforme è un uomo buono, ingenuo, poeta dilettante, che si lascia coinvolgere in una storia d\'amore che purtroppo per lui finisce male [...]. Il secondo racconto, "I satanassi di Torino", narra di una setta satanica (anche qui il tema l'ho trovato di estrema attualità per quello che sentiamo alla tv e leggiamo sui giornali) [...] che adesca [...]. Il D'Aiazzo e il Ranieri, con il loro solito fiuto poliziesco e interrogando in maniera spiccia le persone coinvolte nella vicenda, riescono a ricostruire le fila di tutta la storia e a scovare i colpevoli. Una cosa che ho osservato è che in questi racconti non esistono "buoni buoni e cattivi cattivi", nel senso che anche i personaggi che subiscono la violenza (l'omone deforme del primo racconto e la ragazza quattordicenne del secondo) hanno i loro scheletri nell'armadio. Emerge così il panorama di un'umanità sofferente che, sia negli aggrediti che negli aggressori, è unita dal comune destino di portarsi dietro le proprie croci, di compiere i propri errori, di cercare un riscatto in modi sbagliati, finanche (negli aggressori) di sopraffare gli altri a tutti i costi.  (Elisabetta Modena)


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