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© 1992 Guido Pagliarino

...MA COME FU POSSIBILE LA CACCIA ALLE STREGHE IN NOME DI NOSTRO SIGNORE?!

    Romanzo Premio Speciale della Giuria - genere storico - al Premio Nazionale di Arti Letterarie 2005 -  Secondo classificato al Premio Letterario Santa Margherita Ligure Marco Delpino 2003  - Terzo assoluto al Concorso Garcia Lorca 2004, sezione Premio Aldo Capelli per il romanzo storico - Terzo assoluto al Premio Pinayrano 2004 - Terzo assoluto al Concorso Mario Soldati 2002 indetto dal Centro Mario Pannunzio     Terzo assoluto al Premio Città di Torino 2002   -  Finalista al Premio Città di Moncalieri 2002 sezione Libro edito  -  Finalista al Premio Città di Arona Gian Vincenzo Omodei Zorini 2003 [Già, per l'inedito, era stato finalista al Premio L'Autore - Firenze Libri 26 aprile 1994  e segnalato al  Premio Jacques Prévert 1999]

I edizione, e-Book, Edizione d’Autore, 2001

II edizione, libro, Prospettiva Editrice, Collana I ridotti, ISBN 88 - 87926 - 89 -1 - Proprietà letteraria riservata

Sui libri pubblicati da Prospettiva editrice nella collana "I ridotti"  non spettano all'autore percentuali sulle vendite. Per contro, i diritti restano all'autore stesso.

Il  ©   e i diritti di ristampa con altri editori su questo romanzo appartengono a Guido Pagliarino.

PARERI E ARTICOLI SU QUESTO ROMANZO:  Giorgio Bárberi Squarotti   -  Guido Bava  -  Liana De Luca  -  Sandro Gros Pietro  -   Paola Masetta - Simona Micali (Agenzia letteraria "Studio Nabu") Antonio Scacco - "Bookmark", supplemento del foglio "Il Riformista"

PREFAZIONE DELL’AUTORE

        È questo un romanzo ambientato in un’epoca di isterie religiose, di caccia alle streghe e della donna considerata come una cosa, nonostante lo sbandierato precetto cristiano di amare il prossimo e l’affermazione neotestamentaria che “non c’è più uomo, non c’è più donna, ma tutti sono eguali davanti a Cristo”.

Anche se si tratta di un’opera di narrativa, ho tentato d’immergermi nella mentalità del ‘500. Come gli storici sanno, nel guardare al passato bisogna eliminare, il più possibile, il sentire contemporaneo, ché altrimenti si rischierebbero giudizi astorici. Ad esempio la pena capitale, oggi, per me e tantissimi è cosa atroce, nel ‘500 era considerata ovvia punizione; e si pensava che l’assassino pentito scontasse con la morte tutti i suoi peccati, salendo così al Paradiso. Come vedremo, già c’era invece chi si batteva contro la tortura, ben prima del Beccaria.

Intervengono nella narrazione personaggi di fantasia e altri realmente vissuti. Il protagonista stesso è figura storica, il cui nome è rimasto per un suo trattato contro la stregoneria. Si sa che era avvocato. Non risulta che fosse giudice pontificio come io immagino. L’ho dipinto uomo privo di autoironia. Ho cercato d’infilare io ironia e – nero – umorismo involontari, in certi suoi atteggiamenti e in certe sue descrizioni e considerazioni. L’avvocato Ponzinibio e il tremendo domenicano Spina sono anch’essi realmente esistiti, oltre che, naturalmente, le grandi figure storiche che richiamo nell’opera. Pure l’indemoniato Balestrini è veramente vissuto, solo che risiedeva in Piemonte e non nel Lazio: un caso che oggi si potrebbe dire di mitomania e schizofrenia con istinto suicida. Il giovane vescovo Micheli è invece personaggio fantastico, anche se è immagine di alcuni alti prelati che furono accusati di eresia perché predicavano la carità evangelica, i cardinali Pole, Sadoleto e Morone. Pure sono di fantasia, oltre a figure minori, Mora, il cavalier Rinaldi, il principe di Biancacroce. Quest’ultimo ho mantenuto sempre sullo sfondo, incombente.

 L’idea del romanzo m’era sorta dopo una ricerca sulla caccia alle streghe per capire, almeno, le ragioni storico – sociali di tanta barbarie al culmine dell’epoca rinascimentale. Quanto avevo trovato è sintetizzato nelle considerazioni dell’avvocato Ponzinibio, del vescovo Micheli, del cavalier Rinaldi e, da un certo punto dell’opera, del protagonista.

 Nel XVI secolo persisteva la forma allocutiva voi, ma ormai accanto al lei che, anzi, la stava soppiantando: ho preferito questa perché naturale tanto per me quanto per la maggioranza dei lettori, dato che il voi sopravvive solo in alcune zone del meridione d’Italia. Ho tentato, a volte con l’intento di far sorridere, una lingua che, pur essendo di gran norma moderna, richiamasse in qualche luogo quella del XVI secolo.

Guido Pagliarino

Leggi le prime pagine

 

I N   L I M I N E

Non ebbi naturale il dolce dono della simpatia. Forse fu per il naso adunco, per le labbra troppo carnose, per le sopracciglia unite, per la fronte un po' bassa; o a causa del carattere imperioso, della parola metallica; ma certo furono i miei doveri di giudice a farmi fuggire da chiunque non avesse dovuto incontrarmi: addirittura, mai fui sicuro che la stessa mia Mora mi volesse davvero bene, o si mostrasse amorevole per paura.

Oggi però, vecchio di anni, sento di non soffrire più l'antipatia del mondo, cui riesco a presentarmi con la mitezza e la carità che il Salvatore vuole dai suoi discepoli.

Fu per un uomo di straordinarie virtù che trovai finalmente la strada retta dell’umiltà, e per la sofferenza purificatrice che, a sigillo, il Cielo mi mandò: iniziò come inquietudine, presto s’aggravò in rimorso; ma salì finalmente, per nuovi dolori, a celeste pentimento.

Sì, mai ho potuto obliare Elvira e gli altri, dopo aver saputo infine la verità; ma si vada con ordine.

 

I

Nell'anno del Signore 1517, giovane di ventisei anni, io, Paolo Grillandi giurisperito, fui nominato giudice a latere nel Tribunale di Roma, dove cominciai ad apprendere, dal Giudice Generale Astolfo Rinaldi, la pratica dei procedimenti contro i criminali tutti e, primariamente, contro le servitrici del male dette strigi.
Da molto prima del mio ingresso in magistratura, da quando Innocenzo VIII, nel 1484, aveva promulgato la bolla Summis Desiderantes sancendo ufficialmente la guerra a maligni e maligne e precisando i criteri per distinguerli, innumeri processi per stregoneria, quanti mai prima, erano stati celebrati. Sua Santità aveva compreso che di molto era aumentato il numero di persone, maschi e soprattutto femmine, dedite a pratiche di magia e aveva perciò dichiarato "assolutamente necessario non essere pietosi e indulgenti verso di loro". Felice ne era stato l'esito, con gran condanne di assatanati, resi inof-fensivi con l'imprigionamento o con il rogo.
D'insostituibile aiuto era stato, e rimaneva per noi, Il Martello delle Streghe, che i dotti domenicani Sprenger e Kramer avevano scritto nel 1486, su incarico di Innocenzo VIII, dove ogni caso era previsto e che dava le direttive per la scoperta e la punizione dei maligni. Purtroppo, nonostante i successi, maggiormente il diavolo s'era impegnato e in numero più grande ancora aveva suscitato streghe e stregoni: essi parevano tanto più aumentare quanto maggiormente numerosi divenivano i processi. Così, almeno, io credevo. Infatti la maggioranza degl'inquisiti confessava senza bisogno di tortura; e addirittura un'imputata, quell'Elvira che mai potrò obliare, aveva ceduto innanzi a me senza nemmeno riceverne minaccia. Ci era stata consegnata con la solita formale richiesta di grazia. Noi sapevamo bene che non s'aveva da tenerne conto perché, altrimenti, noi stessi saremmo stati sottoposti a giudizio: si trattava soltanto, una volta avuta la confessione, di scegliere la pena. La donna era stata denunciata per una fattura su tal Remo Brunacci, come lei villano in Grottaferrata. Preziosa era stata la testimonianza del curato piovano, tanto che, a parte la vittima, non era stato necessario interrogare altri paesani: il Brunacci aveva avuto il membro virile sottratto con magia dalla strega e se n'era confidato coll'arciprete. Questi gli aveva allora chiesto di abbassarsi le brache e aveva personalmente verificato: effettivamente, come aveva poi testimoniato, il membro non c'era. Aveva allora invitato il fedele a fare penitenza: digiunare e bere acqua benedetta, pregando il Cielo per riottenere il maltolto. Perché meglio potesse concentrarsi nella preghiera, aveva chiuso il penitente, fornendolo d'un secchio di quell'acqua, in una stanzetta vuota della canonica e ve l'aveva tenuto per un giorno e una notte. Quando finalmente gli aveva riaperto, il piovano aveva eseguito su di lui un nuovo controllo ed era apparso a entrambi il virile membro, con gran gioia e meraviglia di Remo che, appena congedato, aveva raccontato la storia a tutto il borgo. Era dunque arrivata una lettera anonima all'Inquisizione, cui era seguita quella ufficiale dell'arciprete.
In quel tempo assumevo tali denunzie con partecipata indignazione. Anche la mia famiglia, infatti, aveva dovuto subire mali estremi da una strige. Avevo nove anni e, dopo aver appreso a leggere, scrivere e fare di conto, ero ormai a bottega da mio padre, mastro spadaio, quando mia madre, colma di salute per tutta la vita, era stata improvvisamente presa da febbre maligna ed era morta. Ero figlio unigenito, nonostante i miei avessero desiato numerosa prole da avviare all'arte di famiglia. Tante volte la mamma, lacrimando, aveva ripetuto a mio padre che doveva essere stata la levatrice che m'aveva tratto al mondo a impedirlo: era venuta a diverbio con lei, qualche mese dopo la mia na-scita, per una questione di panni sgocciolanti, e quella donna doveva averle fatto fattura: è di pubblico dominio che guaritrici e levatrici son streghe sospette per il solo fatto dell'arte loro; lo stesso Martello delle Streghe indica quelle donne come potenziali maligne. Temendo vendetta pure su di me, i miei genitori ne avevano parlato sempre e solo fra di loro. Purtroppo una sera, essendo come sempre a tavola con noi, qual parte del loro salario, i due garzoni di bottega, il mio genitore aveva bevuto piuttosto ed era caduto preda di gravissima tristezza. La lingua gli si era sciolta e aveva rivelato il segreto. Se non entrambi, uno dei due doveva averlo raccontato in giro. Così mia madre, due giorni dopo, era stata affrontata sull'uscio di casa dalla levatrice che, viperina, le aveva soffiato che a una come lei, che andava a spargere voci, stavano bene disgrazie. Un mese dopo, col-pita da sortilegio di quella lurida strega, la mamma era defunta. Mio padre, perso il lume per il lutto e il rimorso d'aver provocato la ritorsione della maliarda, aveva per prima cosa picchiato i garzoni, nemmeno che questo avesse potuto cambiare la sorte dell'amatissima moglie e non fosse stato il suo bere la prima causa dell'accaduto. Gonfio di odio, perduto ogni timore, al funerale aveva denunziato pubblicamente la levatrice; d'altronde, il fatto stesso ch'ella non fosse stata là presente, a pregare per la morta, era d'accusa. Il curato aveva avvisato l'Inquisizione...

IV di copertina


L'E-book MS Reader, 2001, © 1992 Guido Pagliarino [non scaricabile]

 

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